Questo brano dello storico Giuliano Milani riflette sulla storiografia comunale.
I comuni della manualistica
Come ha scritto Antonio Brusa in un articolo apparso qualche anno fa nel «Cartable de Clio», i comuni hanno una grande responsabilità nel "copione-base" della storia medievale dei manuali scolastici. A loro è affidato il compito di porre fine alla lotta fra universalismo e particolarismo che connota gran parte del Medioevo e quello di gettare "le basi di una nuova società che, attraverso le fasi politiche della signoria e del principato, porta allo stato moderno". Come vedremo tra breve, l'attribuzione di questo ruolo da deus ex machina in un'evoluzione quasi millenaria ha una lunga storia e si deve all'incontro tra due grandi narrazioni di matrice sette-ottocentesca: quella europea che vede nella nascita della borghesia l'avvio della modernità e quella italiana secondo cui è proprio nei comuni che va rintracciata l'origine dell'identità nazionale. Il risultato è che la posizione strategica occupata dai comuni nel discorso scolastico sul Medioevo rende particolarmente difficile la ricezione delle revisioni e dei ripensamenti che produce la storiografia. Anche quando ciò avviene e singoli punti vengono accolti nel canone, la resistente cornice in cui sono collocati non può che depotenziarli.
Così avviene ad esempio in un manuale (M. Fossati, G. Luppi, E. Zanette, Passato Presente 1, p. 74) in cui è evidente che gli autori si sono sforzati di introdurre distinzioni. Si fa cenno alle differenze tra comuni europei promossi da mercanti e artigiani e comuni italiani alla cui fondazione - si legge - concorrono "uomini di guerra", "uomini di denaro" e "uomini di cultura", ma l'informazione rischia di andare perduta, collocata com'è sotto uno schema grafico in stile Powerpoint in cui si leggono, collegati da frecce che esprimono derivazioni causali, la "ripresa economica del secolo XI", quindi la "rinascita delle città", e dunque i "comuni" con tutte le loro caratteristiche (dall'autonomia politica alla monetazione, dalla giurisdizione alle corporazioni) che conducono allo "scontro con il potere imperiale".
È evidente che la partita si giochi in primo luogo sul piano sociale. Da un sistema che parte dalla ripresa economica e arriva a Barbarossa l'idea che i comuni a fine XI secolo siano stati promossi da ceti nuovi (oggi poco condivisa dagli storici) riceve senso, quella che i comuni abbiano avuto una base aristocratica (ben più accettata) è identificata come un organismo estraneo e pertanto tende ad essere espulsa.
I comuni della storiografia
La difficoltà di una revisione di quella che per comodità potremmo chiamare la sovrapposizione tra comuni e borghesia non è tuttavia un problema che interessi i soli manuali, ma è sintomo di una evoluzione tormentata che ha avuto luogo nella storiografia. Dal punto di vista della storia comunale, il XX secolo (inteso in un'accezione lunga che sconfina all'indietro verso la cosiddetta "scuola economico-giuridica" di Volpe e Salvemini e in avanti verso le ricerche dei primi anni Duemila) può essere letto come la lenta, faticosa e controversa affermazione di un paradigma interpretativo alternativo a quello di matrice risorgimentale che aveva trovato nei primi anni dell'Ottocento nell'economista ginevrino Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi il suo grande sistematore.
Già Ludovico Antonio Muratori, il grande erudito modenese vissuto tra Sei e Settecento, aveva sostenuto che la matrice culturale degli italiani riposava nel rifiorire della vita civile che si era diffuso dopo il Mille da Milano all'Europa attraverso una progressiva rivoluzione. Proprio sulla base della lettura di Muratori, Voltaire aveva espresso l'idea secondo cui i comuni italiani avevano finalmente portato nuova luce in un Medioevo oscuro, dominato dal feudalesimo, e che ciò era potuto avvenire perché in essi per la prima volta aveva cominciato ad agire concretamente la borghesia. Ma era stato Sismondi, nei suoi lavori di Storia delle repubbliche italiane, a fissare nei comuni italiani le origini dello spirito repubblicano moderno fondato sulle virtù individuali dei cittadini. Da questo precedente glorioso, a suo modo di vedere, avrebbero dovuto prendere esempio gli italiani che ambivano a creare un nuovo Stato.
La proposta, che aveva trovato vasta accoglienza presso i patrioti, non aveva mancato di suscitare riserve presso gli storici. Se ne possono cogliere alcune critiche non troppo velate ad esempio nel Sommario della storia d'Italia di Cesare Balbo, che costituì un manuale scolastico di riferimento fino a Novecento inoltrato. Inoltre, una volta che lo Stato italiano fu fondato e si manifestarono gravi problemi di diseguaglianza e di organizzazione, nel giudizio sui comuni medievali il tempo della speranza cedette progressivamente il passo a quello della disillusione. In maniera simile a quanto sarebbe avvenuto più tardi, tra 1970 e 1990, anche all'inizio del Novecento gli storici, influenzati dalla crisi delle istituzioni politiche che vivevano in prima persona, cominciarono a spogliare il comune della valenza positiva che aveva sino a quel momento avuto, e a descriverlo come un mondo piccolo, disordinato e litigioso in cui si erano create le premesse per la signoria.
Ma complessivamente questa prima revisione non ebbe come effetto quello di scalzare la connotazione borghese dell'età comunale, che altri lavori, prodotti fuori d'Italia, andavano consolidando. Nella sua grande Storia d'Europa, scritta durante la prima guerra mondiale, pubblicata postuma nel 1936 e destinata a divenire un classico longevo, lo storico belga Henri Pirenne aveva connesso in maniera stretta la rinascita urbana, che a suo avviso segnava il superamento dell'età feudale, alla ripresa del commercio avvenuta dopo il Mille. Secondo Pirenne, gli artefici di quella rinascita erano stati uomini nuovi, marginali che non avevano nulla da perdere, i quali, lanciandosi nell'avventura mercantile, erano riusciti a scuotere le catene del feudalesimo e a modificare dal basso le strutture dell'economia. Per quanto sviluppata sulla base dell'esperienza dell'autore nello studio delle città fiamminghe, questa visione trovò vasta accoglienza in tutta Europa e una buona diffusione nella storiografia italiana. Con una certa approssimazione potremmo dire che quella mappa concettuale realizzata in forma di slide che descrivevo in apertura costituisca una versione assai semplificata di quanto era stato scritto in quel libro.
Come e più di quanto era avvenuto con Sismondi, anche le idee di Pirenne furono discusse dagli storici italiani. Lo studio che Violante pubblicò nel 1953 sulla società milanese dei secoli X-XI lasciava emergere un quadro complesso, in cui all'origine della società che avrebbe prodotto il comune di Milano non venivano collocati servi in fuga, ma proprietari capaci di contendere fondi rurali ai grandi enti ecclesiastici, monetieri e altre persone che riuscivano a cogliere i frutti di una crescita economica lenta ma costante, le cui radici sembravano risalire ben oltre il fatidico anno Mille. Altre ricerche cominciarono a mettere in luce la presenza di numerose famiglie dotate di cospicui beni e di uno stile di vita aristocratico alla guida delle istituzioni cittadine dal XII secolo in poi. Tra queste famiglie, come era apparso dalla ricerca di Plesner sul contado fiorentino (pubblicata nel 1934), ce n'erano alcune che provenivano dagli strati più alti della società rurale. La lettura delle cronache e più tardi delle fonti giudiziarie segnalava come, una volta trasferitisi in città, gli aristocratici che in campagna esercitavano diritti signorili non si fossero affatto trasformati in cittadini buoni e obbedienti, ma avessero promosso alleanze e contribuito alla formazione di clientele e fazioni. A Genova questo appariva particolarmente chiaro e Jacques Heers, in un'opera del 1974, usò il caso genovese insieme con altri per condurre un discorso sulla prevalenza dei legami familiari e degli interessi privati nella società comunale. In generale si cominciarono a considerare le molte testimonianze relative ai legami di soggezione e di patronaggio che nei comuni avevano continuato a funzionare. In particolare Hagen Keller, nel suo importante studio del 1979, osservò che gli stessi legami feudali, che una visione semplificata tendeva a considerare quanto di più lontano vi fosse dai comuni, all'interno delle città italiane esistevano e avevano grande rilevanza, così come le definizioni di ceto connesse a quei legami (quella di capitanei, cioè vassalli del vescovo, e quella di valvassori, cioè i vassalli di questi vassalli) avevano avuto un ruolo fondamentale nella prima società comunale.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, quindi, gli storici hanno attribuito un valore nuovo a dati che talvolta erano stati portati alla luce in ricerche precedenti, spinti da due aspirazioni per molti versi giustificate: liberare la storia comunale dalla lettura ingenua che l'aveva segnata nell'Ottocento e rendere una fase cruciale della storia italiana paragonabile, se non equiparabile, a quella dei vicini paesi europei che vantavano un passato meno cittadino e più feudale e signorile. Nel complesso la grande opera di revisione a cui la storia comunale è stata sottoposta da quel momento in poi ha consentito in larga misura di soddisfare queste aspirazioni. Ma, come spesso avviene quando si innesca un processo di revisione, la polemica ha avuto in alcuni casi la meglio e ha fatto elaborare visioni della vicenda comunale che, per quanto di segno opposto rispetto a quelle ingenue e ottimiste prodotte nel Risorgimento, apparivano egualmente semplificanti. Da comuni democratici, borghesi e felici si è passati a descrivere, talvolta con la medesima icasticità, comuni oligarchici, aristocratici e in cui la vita era insopportabile.
Anche questa lettura "pessimista" della storia comunale, insomma, ha suscitato sin dalla sua apparizione vivaci reazioni. Nel corso degli ultimi trent'anni non sono mancati, accanto a interventi che la confermavano, anche studi di caso, sintesi e rassegne che hanno sfumato o contestato molte delle premesse che avevano contribuito a fondarla.
In questa chiave autori come Giovanni Tabacco e Paolo Cammarosano hanno sottolineato come le clientele vescovili non erano state ovunque altrettanto importanti per la selezione del ceto dirigente comunale, e che in molte città avevano avuto un ruolo notevole individui e famiglie non inseriti in questa clientela. Renato Bordone ha sostenuto come, di là dagli strettissimi contatti tra aristocrazia della città e della campagna, il comune era stato un prodotto tipicamente cittadino, frutto di una cultura propriamente urbana, dotata di valori e caratteristiche sue proprie. Gabriella Rossetti ha cercato di dimostrare come, anche nel caso di membri di stirpi definibili come feudali, l'appartenenza alla comunità dei cittadini contasse più dell'omaggio prestato a un signore, laico o ecclesiastico che fosse.
G. Milani, Comuni borghesi e comuni aristocratici, in «Mundus», 2010, pp. 113-119
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